Ieri guardando mia figlia mi sono chiesto con che cosa giocherà quando sarà grande. La osservo nel box che gioca con niente facendomi tornare in mente il nostro modo di divertirci.
Costruivamo la situazione trasformando la realtà in teatro. Già da piccoli diventavamo registi di noi stessi e a volte dei nostri amici, c'erano i primi attori e le comparse, cioè quelli che partecipavano poco e non si occupavano troppo dell'allestimento.
Ricordo le ore passate a creare le battaglie con i soldatini quando il tempo della preparazione superava di gran lunga il gioco stesso, quando con un metro rubato dalla dispensa di papà si simulavano nordisti e sudisti, quando il sotto della scrivania diventava una tenda e le partite a Subbuteo erano la nostra Champions.
Poi il pallone. Prima il Super Tele, rigorosamente blu, a volte rosso, con un rimbalzo incredibile e l'inconfondibile rumore secco per terra. Calciare quella palla era come giocare al gratta e vinci, non si sapeva mai come sarebbe andata a finire. Una traiettoria che neanche il più moderno dei navigatori avrebbe potuto indovinare. Da sgonfio invece era meraviglioso per noi quasi il pallone della Fifa.
Il livello successivo era il Tango. Spicchi neri e bianchi, plastica dura e rumore quasi da molla. Il dolore che si provava quando lo si prendeva in faccia o su una gamba era equiparabile a quello della sconfitta con gli avversari di sempre.
Maglioni per terra, felpe o magliette a fare le porte, conteggi pazzi e risultati infiniti.
Niente prova tv.
Quando il touch era solo una parte del titolo di una canzone di Samanta Fox.